martedì 4 marzo 2014

Ma che bellissima. Ma che bellezza.

Solitamente l'argomento del giorno è quello che cerco di evitare. Non mi va di seguire la lunga scia di opinioni e buttare nel mucchio cose che sono state dette e sviscerate in tutti i modi possibili e immaginabili.
Solitamente.
Questa volta però faccio come i salmoni: vado controcorrente. Anche a rischio di fare la fine degli esemplari che vivono nelle grosse vasche degli allevamenti privati, che sguazzano in un liquame appartenuto ai loro predecessori e non solo agli attuali compagni di pinna.
Ho visto La Grande Bellezza pochi giorni dopo l'uscita nelle sale, per cui 2013. Parecchio tempo fa.
Non ne ho un ricordo così nitido da poter citarne le battute e ripercorrere con la mente tutte le sequenze del film. E non ho nemmeno la capacità e la conoscenza 'tecnica' necessaria per poterne fare una recensione che possa a tutti gli effetti definirsi tale.
Perfetto: pesce d'allevamento.
Non proprio.
Datemi un'opportunità. Sarò breve.
Non appena uscito dalla sala cominciai a farmi parecchie domande. A discuterne con gli amici seduti accanto a me. Via messaggio con quelli che l'avevano visto e con quelli che ancora dovevano vederlo ma 'già sapevano che...'.
Credo che già soltanto per questo il regista abbia fatto un lavoro più che apprezzabile: far discutere. Dare continui spunti di riflessione.
Prima. Durante. Dopo.
Quanti film vi permettono di prolungare così in là nel tempo una discussione? Quanti sono stati quelli che, nell'ultimo periodo, vi hanno dato così tante opinioni differenti?
Diverse non solo nel contenuto, ma anche nei toni, nella sostanza, nella maniera in cui questi punti di vista sono stati esposti.
Sicuramente è un film studiato per arrivare lì dove è arrivato, ovvero nel cuore dell'America che conta e che premia.
E su questo non ci sono dubbi.
Perché denigrarlo? Perché racconta di feste che 'ma chi ci va?/e quando mai?/si, magari na vorta...'?
Perché i personaggi sono surreali? Poco credibili? Perché quella Roma lì non è quella che si vive tutti i giorni?
Il cinema racconta storie. E ognuno le racconta a modo suo. E in questo caso l'eccessivo involucro narrativo, a mio avviso, avvolge perfettamente la piccola gemma grezza che è il nostro tempo.
Così sporco. Così viscido. All'apparenza di nessun valore, quasi uno scarto.
Ma in quanto grezzo è un qualcosa che va...valorizzato. Lavorato. Accuratamente e con il tempo che un lavoro di estrema precisione richiede.
Noi siamo quella cosa lì: quel troppo, quel ridicolo, quel 'wannabe' che quotidianamente ci accompagna e a cui ci attacchiamo disperatamente per evitare di passare inosservati.
Siamo Facebook, siamo il Grande Fratello, siamo migliaia di blog di esperti/opinionisti che intasano le linee d'aria della comunicazione in attesa di essere messi in evidenza e considerati. Siamo ballerine decadute, scrittori falliti che ancora non si arrendono, vecchi playboy che vivono di rendita.
Questo siamo.
E Sorrentino così ci ha rappresentati. Ha solo utilizzato una carta diversa per il pacco regalo da destinare all'Accademy.
Roma è Roma. Non quella paracula, di Allen. E nemmeno quella degli alluvioni e dei disastri dei recenti Tg.
Se vi capita di andare in giro la sera o la mattina presto...è proprio quella Roma che potete vedere con i vostri occhi. Quella che il regista ha portato a casa nostra. Così com'è.
Quell'alba lungo il Tevere la può vedere chiunque, intorno alle 6 del mattino, in una qualsiasi bella giornata d'estate o di primavera. E il Colosseo, dalla salita di Colle Oppio in una calda sera d'estate, ha proprio quell'aspetto. E non serve scomodare la dolce vita.
Penso a questo film come ad un appello: "Italiani! La situazione è pessima. Siamo decaduti. Sotto ogni punto di  vista. Ma guardate cos'abbiamo. Nonostante tutto. E ancora per poco. Ma è qui, per noi. Possiamo ancora fare qualcosa. L'alternativa al fare...è questo".
Tutto qui.
E per quanto abbia trovato meravigliosa la prima parte e meno interessante la seconda, eccetto la sequenza finale, ringrazio davvero Sorrentino per averci dato modo di poter parlare. Di averci dato un valido e interessante motivo per confrontare idee e opinioni differenti.
Pensate a quant'è raro sentire parlare di cinema, di arte, di attori, di cultura...E in questi giorni se ne parla ovunque: nei bar, a scuola, in ufficio, a casa. Davvero ovunque.
Siamo abituati alle chiacchiere sul calcio, sui talent, sui reality, sulla crisi e poco più.
E ora ci hanno dato un'alternativa a questa grande bellezza.
Io ne approfitterei.



lunedì 28 ottobre 2013

Chi (ne) risponde?


Più passa il tempo più la nostra vita diventa 'su misura'.
(Rumore di acqua calda che scorre e urla di giubilo per la novità).
Ovviamente l'avrete già ampiamente notato: la Coca Cola con il nome tuo o quello della persona con la quale si vuole condividerla e la Nutella che ti conosce da sempre e per la quale rimarrai lo stesso di sempre.
Praticamente stanno dando ragione a mia madre quando mi dice "oh...non cambi mai"?
Vabbè.
Non bastavano le iniziali sul colletto/polsini della camicia o gli adesivi tamarrissimi che si attaccavano sul retro delle auto, a fine anni '90, che servivano ad identificare il proprietario della vettura o le prime lettere dei nomi dei due fidanzati?
Ecco, si, questi adesivi erano pessimi. Una cosa imbarazzante, a pensarci bene. E qualcuno ancora persiste eh? Fidatevi.
Lo fanno, lo fanno.
Comunque.
La distinzione tra prima e seconda classe, fumatori e non fumatori, uomini e donne non basta più; ora, l'esigenza predominante è quella del dover andare più in profondità nei distinguo, ancora più nello specifico.
A volte in maniera del tutto gratuita, giusto per dare alle persone un'illusoria sensazione di 'oh, lo fanno per me che sono diverso rispetto agli altri' e per diverso intendo 'migliore'.
E per 'migliore' intendo:
a) Pago di più.
b) Ho pagato tanto, troppo fino ad ora per cui ora posso scegliere (?)
c) Si mangia la stessa minestra ma chiamata con un nome differente
In altri casi, invece, la maggiore possibilità di scelta è dovuta a fattori prettamente fisici/etici.
Che so, penso ai menù per vegetariani, quelli per celiaci o per le persone intolleranti a più ingredienti. Ovviamente, in questi casi, ben venga la possibilità di non avere un'unica possibilità.
Ovviamente.
Ok, vado dritto al sodo.
A me piacerebbe si potesse creare un'area a parte per i rompicoglioni.
Scusate la volgarità ma almeno così evitiamo fraintendimenti.
Essendo costretto, quotidianamente, a stare a stretto contatto con una moltitudine di persone, questa categoria diventa, ai miei occhi, sempre più protagonista indesiderata delle mie giornate.
Nello specifico, in questo post mi riferisco ai cosiddetti 'cellularisti', un termine che non esiste ma che indica alla perfezioni di chi e cosa sto parlando.
La scheda tecnica del cellularista:
  1. Urla al telefono. Sempre e comunque. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Qualunque sia l'argomento della conversazione. E per qualunque intendo davvero qualunque. Purtroppo.
  2. Possiede uno smartphone abbastanza recente.
  3. La suoneria è, solitamente, una hit del momento, un vecchio classico alla Radio Capital, o un effetto sonoro molto molto molto fastidioso.
  4. Molto fastidioso.
  5. A volte i telefoni sono più d'uno.
  6. Danno il meglio di sé nei luoghi chiusi.
  7. Maledetti.
  8. Parlano con cadenze dialettali molto marcate, sottolineate dal volume e dal colore dell'esposizione.
  9. Non necessitano di un lessico particolarmente forbito, a meno che non siano manager. Questi ultimi iniziano la conversazione con una terminologia tecnica molto precise e particolareggiata, per poi continuare e chiudere con fatti personali e giudizi di varia natura molto molto folkloristici.
  10. Molto folkloristici.

I cinema sono stati i primi a 'ghettizzre' i cellularisti. Per ovvi motivi. Questa sorta di 'razzismo' tecnologico non funziona spesso, purtroppo. Soprattutto nei multisala e il fine settimana.
Dev'essere una moda. Una tendenza. Un flash mob.
Ai concerti, invece, il cellularista può dare il meglio di sé, a meno che non si tratti di musica classica, opera o simili; in questi casi la recente tendenza, da parte degli artisti, d'interrompere l'esibizione (anche solo momentaneamente), pare essere un deterrente abbastanza efficace.
Ma i treni.
Ecco.
I treni.
La fantomatica 'area silenzio'.
Che meraviglia.
“Si prega di evitare conversazioni ad alta voce, telefonate, suonerie e musica. Grazie per la collaborazione e buon viaggio”.
Si!
Allora una cura c'è. Non ti obbligano. Ti consigliano. Che è già un bel passo avanti.
L'avviso in inglese non sempre viene letto dai viaggiatori stranieri, ma basta un cenno al capotreno per sistemare l'eventuale 'sforamento' della barriera del suono.
Essendo in prima classe, è facile trovare persone più collaborative in tal senso.
'Migliore'.
Ricordate?
Appunto.
Ma come i peggiori virus, anche il cellularista pare aver sviluppato una forma di autodifesa dalle avvertenze, dalle convenzioni, dal buon senso e dal quieto vivere.
Non ho idea di come si possa chiamare questo atteggiamento.
Cioè si, ce l'ho.
Ma non posso dirvi tutto io.



P.s. 
Spero fosse Equitalia! 


domenica 27 ottobre 2013

E damosela na mano no?

In linea di massima odio profondamente il concetto di "volemose bene".
Alla gente non frega nulla di te, almeno fino a quando il "te" non comprende anche il "io", trasformando la situazione in una questione di convenienza reciproca mascherata da 'altruismo che solo noi italiani nei momenti di difficoltà...' e blablabla.
Siamo un paese povero. 
Culturalmente siamo da terzo mondo; non per quello che possediamo (inutile elencare le nostre ricchezze) ma per quello che effettivamente sappiamo e quotidianamente facciamo per accrescere maggiormente il nostro sapere. 
Economicamente presto lo diventeremo, il terzo mondo. Manca poco. Nonostante manovre, manovrine, appelli e presunti salvataggi da parte di una classe politica che, se da una parte proclama un continuo impegno istituzionale al fine di risolvere la questione Italia, dall'altra continua tranquillamente a sguazzare nei privilegi e nell'ignoranza di coloro i quali governano ma dai quali non sono personalmente scelti. 
Così, giusto per ricordarvelo. 

Sono nato a Torino. Ci ho vissuto, a Torino. Amo questa città. Torno appena posso. Amo i suoi colori, le sue temperature, le sue vie dritte, i suoi parchi, il suo 'storico' centro storico, il Po, la collina, le montagne, la cioccolata...che faccio, continuo?
Negli ultimi anni chiunque capiti da queste parti se ne innamora. Follemente. 
Come non essere d'accordo? 
'Eh...dopo le Olimpiadi...'...vero. Ma non è tutto oro (tantomeno olimpico) quello che luccica. 
I problemi della città sono tanti. Molteplici.
Ad esempio: i tagli alla sanità, i trasporti, l'inquinamento, i murazzi chiusi, la movida (violenta). Ad esempio. 
Ah, la Juve...
Sto scherzando, ovviamente. 
Ribadisco: scherzo. 
E il lavoro?
Ecco. 
A tal proposito, mi è venuta in mente un'idea stupida. Stupida perché molto semplice. Talmente semplice da passare per semplicista. E sempliciotta. 
Ma mi piacerebbe che qualcuno potesse rispondermi in merito. 
Vi dico. 
Una sera, girando per una bellissima e illuminata Piazza Castello, dopo aver letto sui quotidiani le continue chiusure di attività commerciali e la crescente disperazione dei torinesi senza lavoro e senza speranze (di), il mio occhio è caduto sul Duomo. 
Il Duomo. 
Se davvero la politica avesse a cuore le sorti di questa città e dei suoi abitanti, e la Chiesa avesse davvero a cuore il futuro dei suoi fedeli...beh, cosa ci sarebbe di male in una collaborazione? 
Una collaborazione ampiamente conveniente in termini economici quanto 'd'immagine' per entrambi. 
La Sindone. 
Esatto. 
Perché no?
Perché non realizzare una costante quanto efficace ostensione che porterebbe fedeli (e non) di tutto il mondo qui, in città?
Non ne sto facendo un semplice discorso economico. Non voglio strumentalizzare il sacro a favore del profano. 
Ma mi domando: sono tempi terribili. Di sacrifici. E il peggio deve ancora arrivare. 
Perché no?
Se la Chiesa Cattolica e la politica trovassero un (ulteriore) punto d'incontro...sarebbe meglio per tutti: albergatori, commercianti, lavoratori del settore turistico e chi più ne ha più ne dia. 
Torinesi vi ricordate i giorni in cui la città era invasa da persone di tutte le parti del mondo venute qui per la Sindone?
Quanta internazionalità, quanta spiritualità (sono serio), quante possibilità per parecchi. 
Perché non dare a Torino e ai torinesi questa opportunità? 
Perché non dare ai credenti e agli atei quest'occasione per conoscersi meglio?
Perché non dare all'Italia un ottimo spunto per ripartire?
Dare un esempio di civiltà politica, gestendo in un modo 'nuovo' e onesto tutta la vicenda. 
Dare un esempio di spiritualità religiosa, affidando una reliquia fondamentale per la Chiesa Cristiana nelle mani dei suoi fedeli come atto di fiducia e di speranza. 
Perché rimanere chiusi? 
Non ha senso far finta di niente. Non ha senso aspettare di affondare definitivamente per poi dire che "forse si sarebbe potuto...".
Salviamoci. 
Salvateci. 
Siamo ancora in tempo. 

Troppo buonista?
Troppa importanza data ad un oggetto dalla veridicità discutibile? 
Si, ho capito, ma che v'importa? Tanto ora si passa al trapuntino...














giovedì 3 ottobre 2013

Questo post si autodistruggerà in 3, 2, 1...


Se credo negli oroscopi?
Diciamo così: mi piace quando dicono cose belle. Ma li snobbo quando il voto è al di sotto del 6,5.
Facile, no?
Si, lo so, ma sono un 'superstizioso non superstizioso', per cui il mio cercare (o meno) il supporto astrale dipende dal piede con il quale mi alzo la mattina.
Solitamente mi divido tra Paolo Fox (oh...quando c'azzecca è impressionante) e Rob Brezsny, molto più 'indie – alternative'.
Questa mattina l'amico Rob parlava così:

Non dire che vuoi l’amore”, dice lo scrittore Stephen Sparks. “Dì che vuoi la luce del mattino attraverso una finestra macchiata di vernice; dì che vuoi una folata di vento che trascina le foglie sul marciapiede e colline che rotolano verso il mare; dì che vuoi vedere, in un albero davanti al quale passi ogni giorno, i resti di un nido rivelati dalla caduta delle foglie; un pigro pomeriggio di conversazione nella penombra di un bar; l’odore del pane che cuoce”. Questo è proprio il consiglio che voglio darti, Gemelli. Secondo me, non ti puoi permettere di essere vago e generico nelle tue richieste d’amore. Devi chiedere esattamente le sensazioni e le esperienze che faranno crescere la tua voglia di goderti la vita.

La prima cosa a cui ho pensato è stata: ''Ok! Adesso prendo la chitarra e scrivo una canzone!”. Ma poi ho cambiato immediatamente idea, preso dal terrore di scrivere un miscuglio di banalità alla Jennifer Lopez del tipo 'baby i love you, baby i need you'.
Brrrrr!
Bleah!
Però!
C'è un però!
Il pensiero riguardo a cosa mi piacerebbe chiedere mi è venuto. E per tutto il giorno ho immaginato a cosa poter chiedere al posto del classico amore made in Hollywood.
Non sono romantico, solitamente. Anzi.
Se solo ci provo risulto delicato come un uomo di Neanderthal che prova ad sgusciare un ovetto sodo con una clava.
Ma mi piace l'idea di averci pensato tanto. E a tante cose. La giornata ha avuto un colore diverso. 
Inoltre è la prima volta che 'rispondo' ad un oroscopo. Magari affrontarlo a viso aperto può essere un esperimento interessante.

Allora.
Io non voglio l'amore. Per quel che ne so, l'amore dura due anni. Così dicono. E dopo? Dopo c'è l'affetto. La routine. I pranzi dai rispettivi genitori il fine settimana. Le cene con le rispettive coppie di amici. I compleanni cadenzati dei vari conoscenti, di quelli a cui non sai mai cosa regalare e che se non ci vai fai la figura di quello che se ne frega e poi la tua lei s'offende e tiene il muso per tutta la serata e quando torni a casa ti tocca pure litigare. Le vacanze ad agosto. Le due settimane al mare o in qualche capitale a fare le foto. Che poi quando ti annoi prendi il telefono e guardi se qualcuno ti ha 'whatsuppato' o se hanno commentato la tua foto appena postata su Facebook.
Non voglio l'amore.
Vorrei che mi passassi la penna mentre sono seduto sulla poltrona con in braccio la chitarra, quando non mi vengono le parole e il plettro cade per terra e, senza parlare, riesci a dirmi cosa scrivere.
Vorrei andare al cinema e commentarti nell'orecchio il film, soprattutto quando succede qualcosa di stupido e io rido come un 'duenne', darti fastidio promettendoti di non farlo più subito dopo che mi dici di stare zitto.
Vorrei andare a correre in mezzo alle foglie che cadono, con i ricci spaccati ma non aperti del tutto, dai quali fuoriescono le castagne, di quelle che non si mangiano ma si tengono in tasca perché tengono lontano il raffreddore. Ma tu a queste cose non ci credi. E ogni volta che ne trovo una mi chino a raccoglierla mettendola nel cestino della bici con la quale mi segui, perché so che ti stanchi e ti annoia a starmi dietro. Soprattutto quando fa freddo. Ma vieni perché così stiamo insieme.
Vorrei arrivare a casa e trovarti addormentata. Con la musica in sottofondo. E sentirti borbottare che le cose non sono andate come avresti voluto. E allora sei tornata a casa e hai pianto, anche perché io non c'ero e mi hai odiato anche se non era stata colpa mia. Ma adesso ci sono. E tu stai meglio. E allora faccio lo stupido, perché è la cosa in cui sono più bravo di tutti, e tu ti svegli del tutto. E mi odi. Ma poi ci baciamo e mentre tu parli, io mi addormento e forse ti sbavo anche sulla spalla.
E quando ci addormentiamo riusciamo a stare incastrati per qualche minuto. Come pezzi di un lego che combaciano e non fanno fatica ad attaccarsi l'un l'altro. Ma per poco. Perché vuoi stare comoda. E io pure. Ma anche se ci spostiamo, un pezzo di noi rimane sempre in contatto con l'altro: una mia mano sul tuo fianco, un tuo piede sulla mia gamba, il mio culo con il tuo. Lontani. Ma senza perderci.
E adesso comincia a fare freddo. E compro una guida ai locali dove fanno i migliori biscotti. E io ti ci porto, ma non li posso mangiare. E ti guardo mentre ne mangi uno, non di più, perché sono buoni ma 'non hai fame', mi dici. Invece li divoreresti tutti, ma poi ti sentiresti grassa. E preferisci fare finta di essere sazia. Prendendomi in giro perché posso bere soltanto un caffè o un english tea caldo con latte a parte o un marocchino cioccolatoso, con tutto il cioccolato che mi rimane sui denti mentre sorrido apposta per farti vergognare.
Vorrei mi venissi a prendere a lavoro senza dirmi niente. E vorrei portarti un mazzo di girasoli quando saluti i colleghi e stai per salire in macchina. Ma poi i girasoli nella Vespa non ci stavano, per cui sono tutti piegati e, mentre mi baci, mi dici che non sono capace a farti le sorprese.
Vorrei farti un sacco di foto stupide e mandartele in momenti 'random' della giornata solo per farti ridere e ricordarti che ti penso. E che ti controllo. Signorina...
Vorrei pensare che domani ci sei. Se piove. Se la luce salta e non torna.
Se alzarti da una sedia diventa un'impresa vorrei essere lì a mettere il cuscino sotto le tue chiappe raggrinzite perché così la volta dopo non sprofondi troppo in basso e le ginocchia non ti fanno più tanto male.
Vorrei che mi aspettassi mentre vado a scuola alle 8:20 salutandoti rumorosamente. Per poi tornare dopo la mezza affamati e curiosi di ascoltare le storie della mattinata appena trascorsa.
Vorrei passeggiare in un parco, insieme. Perché adesso correre è un po' difficile e le ore è meglio godersele lentamente.
Vorrei guardarti e rivederci in ogni attimo di quello che siamo stati.
Questo vorrei.

Adesso basta però. Che poi s'avvera tutto sto casino e mi arriva in casa una che mi chiede di scegliere tra lei e i miei cd.
Abbella...50 e passa cd degli Oasis tra discografia completa e bootleg comprati a Londra non si trovano da nessuna parte.
E vedi d'annattene!


martedì 1 ottobre 2013

Chi fermerà la musica?

Negli ultimi anni l'ascoltare un determinato cantante/gruppo/brano musicale, spesso, ha caratterizzato la nostra appartenenza (inconsapevole?) ad una determinata categoria sociale.
Esagero?
Non credo.
Ad esempio: ascolti gli Arcade Fire? Allora ne sai.
Mi seguite?
Altro esempio.
Lady Gaga?
Ok, ci siamo capite.
Diciamo che dal binomio Beatles - Rolling Stones in poi 'l'appartenenza' ha giocato un ruolo fondamentale nel mercato discografico (The Who - Mods su tutti).
Comunque.
Nel 2001 un successo clamoroso ebbe il brano 'le vent nous portera' dei Noir Désir.
Ascoltarli prima del loro divenire un tormentone era molto cool.
Effettivamente il pezzo aveva un qualcosa di magnetico: nelle parole, nella musica, nel video.
Senza contare il carisma della band e, soprattutto, del suo leader.
Brevemente: Bernard Cantat nel 2003 viene arrestato a Vilnius dopo aver ucciso a pugni, la sua compagna, l'attrice Marie Trintignant.
Condannato a 8 anni di reclusione, ne sconta soltanto 4 per buona condotta, con l'aggiunta di non poter nemmeno accennare alla vicenda nelle sue future opere da lì a 10 anni. Uscito di prigione, torna insieme alla compagna che aveva frequentato prima di Marie. Nel 2010 la donna s'impicca perché  non sopporta più la violenza di Cantat; dopo averlo scagionato nel processo Trintignant, prima di suicidarsi lascia un messaggio in segreteria ai suoi genitori, dove accusa esplicitamente Cantat di violenze continue su di lei i i loro bambini.
In questi giorni è uscito il nuovo singolo dell'ex leader dei Noir Désir, che ora si presenta, insieme ad un suo ex musicista, con una nuova formazione.
Che fare?
Personalmente ancora non ho ascoltato il nuovo brano, 'Droit dans le soleil'. Non lo so.
Avevo già qualche problema con la canzone del 2001.
Perché?
Inquietudine.
Immotivata. Insensata. Ma forte inquietudine.
E poi i tormentoni evito sempre di ascoltarli nel momento di massima esplosione, perché il rischio è quello di arrivare ad 'odiare' una canzone che, se non 'tormentata', sarebbe meravigliosa.
Tipo 'Trouble' dei Coldplay. Una gemma sprecata.
Un brano speciale vale la 'rimozione' di un passato violento?
La storia della musica è piena di omicidi, di risse, dipendenze da droghe e alcool, ma difficilmente il prezzo da pagare è stato così alto.
Si può far finta di nulla? Soprattutto, è giusto?
Può una persona con un'ombra così grossa e, tutt'ora così presente, andare in giro per il mondo e cantare liberamente il suo dolore che è anche, e soprattutto, quello di una famiglia a cui è stata portata via una parte così importante?
Dove finisce lo spettacolo e quando comincia la vita vera? E quanto si possono sovrapporre realtà e arte e fino a che punto?
Risposte non ne ho.
L'ultima volta che mi posi un problema simile, era riguardo ad un tizio che diceva di aver sparato ad un uomo sulla riva del fiume Reno. Solo per guardarlo morire.
Ma poi smentì di averlo fatto davvero. Disse che si trattava solo di una frase inventata in una canzone.
Forse.




venerdì 27 settembre 2013

La mia parte intollerante

Ci sono delle notizie che m'impongo di non approfondire.
Lo faccio per il semplice fatto che si tratta di 'boutade' il cui chiaro intento è quello di far parlare di sé il più possibile. Tutto qui.
Ed essendo il mondo dei media e dei social bisognoso di continue cose di cui parlare, ogni stronzata abbellita, impacchettata e spacciata per 'dichiarazione ufficiale' diventa la portata principale della giornata.
Il mio ragionamento è molto semplice.
Vuoi che il Signor Barilla, proprietario di una multinazionale che da decenni fattura miliardi in tutto il mondo, non sappia ciò che dice? Una persona di cui raramente si è sentito parlare se non, appunto, per la pasta? Pensate che sia una dichiarazione sbagliata, quella da lui rilasciata, che si sia confuso, che abbia fatto una gaffe?
Non credo proprio.
In un periodo di crisi, dove la gente non spende se non per indebitarsi acquistando Iphone, Ipad e tecnologia varia...quanto è importante la pubblicità?
Buona o cattiva che sia?
La Barilla negli ultimi anni ha passato periodi poco felici, soprattutto quando circolarono le voci di ingredienti geneticamente modificati utilizzati per la produzione dei loro prodotti.
Come attirare l'attenzione su di sé, o meglio, sul proprio prodotto dopo un down commerciale?
Appunto.
E non importa che la gente s'incazzi, perché tanto con una dichiarazione successiva in cui ci si scusa, con un nuovo spot 'ad hoc' e con qualche parodia su YouTube tutto tornerà come prima, anzi...meglio.
Perché nel frattempo il marchio ha fatto il giro del mondo, la gente non ha parlato d'altro, al supermercato le persone avranno fatto caso (magari non acquistato, ma notato maggiormente si) solo alla sua pasta.
Una pubblicità su scala mondiale fatta con...un'intervista? Quindi gratis.
Un genio.
Se poi si considera il bigottismo di certe persone allora il gioco è fatto.
Ikea realizzò, qualche tempo fa, uno spot dove dichiarava che la sua concezione di famiglia prevedeva un concetto più ampio di quello 'classico'.
Perfetto. Gran cosa. Giustissimo. Ma una scelta personale.
Se fossi stato ultra cattolico e conservatore avrei dovuto boicottare Ikea? Avrei dovuto realizzare una campagna mediatica devastante atta a screditare il marchio perché la famiglia è etero e non gay?
Giovanardi.
Lui si che si scandalizzò.
E ho detto tutto.
Sicuramente si può discutere sulla scelta, ma non credo sia giusto andare oltre un giudizio puramente personale. Ognuno, delle sue cose, ne fa ciò che vuole.
Ripeto, può essere giusto o sbagliato, ma la libertà di decidere a chi indirizzare le proprie attenzioni non dev'essere criticata.
Altrimenti si rischia il classico razzismo al contrario.
Capirei se ci fosse il monopolio della pasta. Ma non c'è. Siamo liberi (oddio...).
Per cui liberi di decidere e di fare.
Tutto qui.
E poi a me che me ne frega, io la pasta non la mangio. Sono fortemente intollerante.
Al grano.
Maliziosi.




P.s.
Vi basta questo per farvi passare tutto.



mercoledì 25 settembre 2013

Mi ricordo una notte sotto una pioggia battente...

Che cosa è la musica?
Bella domanda di merda, eh?
Io lo so che cos'è la musica. Lo so benissimo. Ma non ve lo posso dire. Nel senso...
Potrei dirvelo, ma poi dovrei rispiegarvelo non appena dovesse cambiare la canzone in sottofondo. E poi di nuovo e di nuovo ancora.
Ah, la stessa cosa vale anche per voi.
Anche voi sapete che cosa è la musica, ma non potete dirmelo.
Non voglio fare il filosofo, sia ben chiaro. Chiedo. Mi domando.
A grandi linee potrei dirvi che la musica esprime 'in musica' ciò che noi non riusciamo a dire a parole.
Molto banalmente.
Magari non vogliamo dire nulla e ci basta ascoltare un ritornello per rilassarci o iniziare una passeggiata
Tutto e niente, ecco che cosa è.
Spesso tendiamo ad identificarci con un cantante, a far nostra una frase, a dire 'oh, ma sta parlando di me! quello sono io'.
Non so se sia questione di tempo, degli anni che si accumulano oppure per il fatto che i cantanti 'del momento' siano sempre più giovani di noi per cui difficilmente ci si può immedesimare, ma più vado avanti e più sento che questo vecchio feeling va coltivato con maggior cura perché rischia costantemente di sparire, se solo dimenticato anche per un attimo.
Non mi capitava da un sacco di tempo di emozionarmi, con tanto di pelle d'oca, per una canzone. Che poi, in questo caso, non è nemmeno (ancora) un singolo. Direi più...un'atmosfera.
Si tratta di un brano che ha parecchi anni, ormai, ed è stato reinterpretato di recente per la colonna sonora di un film: Inside Llewyn Davis, la storia del folksinger che, pare, abbia ispirato Bob Dylan.
A cantarla Marcus Mumford, leader dei Mumford & Sons.
Ora, la canzone è particolarmente intensa ma non sembra essere tutto questo capolavoro (per ora si può ascoltare a tratti nel trailer del film e in una versione live, su YouTube, registrata da qualche fan).
Eppure il mix tra immagini e suoni è una bomba che mi esplode dentro ogni volta.
Mi fido dei fratelli Coen, mi fido di Marcus e mi fido di me: sono impaziente.
Che poi i Mumford & Sons siano un finto gruppo folk, di finti contadini, con finti vestiti sgualciti e dalle finte vite rurali...beh, questo è un altro discorso.
Io comunque resto in attesa.
Non dei M&S che, proprio oggi, hanno annunciato il ritiro dalle scene alla fine di questo tour.
Quattro anni. Due album. Tanti concerti. E stop.
Resto in attesa del film. Della canzone. Della storia.
Della bomba pronta ad esplodere.
Ogni volta.